La Biblioteca Visconteo-Sforzesca

del Castello di Pavia



"... una copiosa libraria et delle più belle
che à que tempi si potessero vedere in Italia ... "

Il castello di Pavia ha custodito per più di un secolo, tra l'ultimo quarto del Trecento e il fatidico 1499, una delle biblioteche più ricche, prestigiose e ammirate dell'epoca in Europa. Ne ripercorriamo qui la storia, che si intreccia con quella dei signori del castello, i Visconti e poi gli Sforza, e che vive oggi un nuovo affascinante capitolo: la ricostruzione multimediale promossa dai Musei Civici di Pavia.


Biblioteca di Corte - La sezione museale

Visita la sezione multimediale ai Musei Civici di Pavia,
Castello Visconteo, Viale XI Febbraio 35
Biglietto: 4 euro, tutti i musei 8 euro. Dettagli
Per informazioni: tel. 0382.399770 - museicivici@comune.pv.it
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La sezione "Biblioteca di Corte"
ospita la mostra "L'universo ad orologeria.
L’Astrario di Giovanni Dondi a Pavia"
dal 7 ottobre al 23 dicembre 2017

L'universo ad orologeria. L’Astrario di Giovanni Dondi a Pavia
Intorno alla biblioteca:
il castello
Petrarca I protagonisti:
committenti e collezionisti
Altri protagonisti:
scrittori e miniatori
I libri come status symbol Localizzazione
della biblioteca
L'astrario
di Giovanni Dondi
Documentazione
Gli inventari La dispersione La ricostruzione virtuale Bibliografia







Intorno alla biblioteca: il castello



Il castello – o meglio, il palazzo, date le caratteristiche non solo di funzionalità e sicurezza, ma anche di eleganza e valore estetico della struttura e dei suoi apparati decorativi, che ne facevano la degna dimora di una raffinata corte internazionale – viene eretto in tempi assai rapidi, tra il 1360 e il 1366, da Galeazzo II Visconti, all'indomani della conquista della città nel 1359 dopo un lungo assedio. La mole imponente dell'edificio si innesta sul margine nord della città, divenendo il segno tangibile e monumentale della nuova signoria.

Ben presto rivestito da affreschi decorativi e celebrativi (in parte ancora oggi visibili, nonostante le ingiurie del tempo e vari interventi successivi) sia sulle pareti interne delle stanze, sia sui muri e le volte del portico e del loggiato, il castello viene interessato sotto Gian Galeazzo da una nuova estesa campagna pittorica, affidata ad artisti non solo locali, e dalla trasformazione di taluni elementi architettonici e ornamentali (come l'inserimento delle eleganti bifore e monofore in luogo delle iniziali quadrifore su due lati del loggiato), secondo una declinazione di gusto aggiornata alle raffinatezze dello stile gotico cortese.

Il potere signorile, politico ed economico, si manifestava, allora come oggi, anche attraverso segni, simboli, immagini, il cui messaggio doveva essere recepito con chiarezza da un pubblico diversificato: dalle varie categorie di semplici cittadini agli ospiti di riguardo ammessi all'interno delle sale di rappresentanza, dagli inviati di stati stranieri ai colti intellettuali gravitanti intorno alla corte. Ogni intervento di tipo architettonico, artistico e culturale si inserisce, così, in un'accorta strategia di affermazione personale e dinastica, che coinvolge di epoca in epoca tutti i signori del castello, dal fondatore all'ultimo duca.

È in questo contesto che prende avvio l'iniziativa, forse già di Galeazzo II e certamente concretizzata dal figlio, di raccogliere e collocare in un ambiente appositamente dedicato il prestigioso e variegato patrimonio librario, che si andava costituendo.


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Petrarca



Francesco Petrarca – già dal 1353 presente a Milano in qualità di letterato e diplomatico e poi a Pavia, dove alloggiava presso la figlia – in una celebre lettera scritta nel dicembre del 1365 all'amico Boccaccio, per convincerlo a fargli visita in terra lombarda, elogiava le bellezze della città di Pavia e, soprattutto, la maestosa fabbrica del castello, allora in fase di ultimazione:

E come ultima bellezza, non in ordine di importanza, ma di tempo, avresti veduto eretto sul punto più alto della città il grandioso Palazzo, di meravigliosa struttura e spesa, che il magnanimo Galeazzo Visconti, secondo di questo nome, signore di Milano e di questa come di molte altre città all'intorno, innalzò: uomo che vince in molte cose molti altri, nella sontuosità dell'edificare se stesso. Io per me sono sicuro che, se non mi travia l'affetto per chi ha costruito il Palazzo, tale è il tuo buon gusto, fra tante opere moderne questa avresti giudicato la più maestosa. Oltre alla vista dell'amico che non spero, ma so per certo di esserti graditissima, meravigliosi spettacoli di cose sicuramente non di poco conto, come dice Virgilio, ma senz'altro importanti e grandiose, ti avrebbero dilettato. Infatti, lo confesso, dilettano e incantano me. (Seniles, V, 1)

Anche se Petrarca nei suoi carteggi non fa cenno alla biblioteca viscontea, non si può escludere che egli, nei suoi anni milanesi a stretto contatto con gli ambienti di corte, abbia potuto ispirare con indicazioni e suggerimenti il costituirsi di un colto e aggiornato patrimonio librario. Poco più di vent'anni dopo, grazie al corso delle vicende politico-militari legate all'espansione della signoria viscontea, alcuni tra i codici più importanti e preziosi appartenuti al grande poeta entreranno a far parte proprio della nascente libreria pavese.

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I protagonisti: committenti e collezionisti



La biblioteca prende forma sotto l'accorta regia di Gian Galeazzo – che fa di questa raccolta prestigiosa un'espressione del suo potere personale e della sua spregiudicatezza politica – attraverso la progressiva acquisizione di diversi e più o meno consistenti fondi librari, secondo varie modalità: per assorbimento di eredità familiari – volumi paterni, materni e di vari membri della famiglia, come quelli dello zio Bernabò, al quale Gian Galeazzo si contrappone nella lotta per il potere –, tramite requisizioni e confische dei patrimoni librari di personaggi caduti in disgrazia (come il colto segretario ducale Pacino Capelli), o come veri e propri bottini di guerra. È questo il caso della collezione di manoscritti dei Carraresi, incamerata alla conquista di Padova nel 1388, nella quale si trovava almeno una trentina di codici appartenuti in origine da Francesco Petrarca.

Vari membri delle famiglie Visconti e poi Sforza – secondo quella linea di consapevole e ribadita continuità dinastica, che si manifesta anche nel campo della committenza libraria e della cura della biblioteca del castello – sono bibliofili, si circondano di intellettuali di corte, di studiosi e maestri di varie discipline, fanno realizzare libri per l'educazione dei propri figli (la corte viscontea è ad esempio una delle prime in cui si promuove l'insegnamento della grammatica greca), oltre a testi religiosi e liturgici, destinati tanto alla devozione privata quanto a quella pubblica. Si tratta spesso di oggetti di lusso, destinati non solo a un godimento estetico personale, ma a un'esibizione di sfarzo, gusto, cultura di fronte a importanti dignitari, visitatori stranieri, rinomati intellettuali, ambasciatori di altre corti.

Celebri, ad esempio, sullo scorcio del Quattrocento, i volumi fatti preparare da Ludovico il Moro per il figlio Massimiliano (ora conservati nella Biblioteca Trivulziana di Milano), caratterizzati da una sontuosissima decorazione miniata, oppure gli esemplari di lusso della Sforziade (poema celebrativo dei fasti familiari sforzeschi), destinati a doni di rappresentanza, alcuni persino realizzati in forma di incunabolo (attestando il precoce interesse della corte lombarda per la tecnica della stampa), su sottilissimi fogli di pergamena poi decorati da elegantissime miniature.

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Altri protagonisti: scrittori e miniatori



La realizzazione di un libro è stata per secoli – fino all'affermarsi delle tecniche di stampa e in parallelo con l'evoluzione della qualità della carta – un processo estremamente complesso, lento e costoso, sia per i materiali impiegati (pergamena e inchiostri per la scrittura, colori e lamine metalliche per la decorazione, cuoio e stoffe per la rilegatura), sia per l'impegno e la perizia delle maestranze impiegate in tutte le fasi della manifattura: preparazione di un supporto adeguato (per consistenza, colore, spessore, dimensione) a tipologia, valore e destinazione del libro; accurata impaginazione e trascrizione dei testi; previsione e organizzazione degli spazi da riservare a ornamentazioni e illustrazioni; definizione del programma iconografico; esecuzione di iniziali, fregi e decorazioni più o meno complesse, a penna o miniate; finale riordino e cucitura di tutti i fascicoli in una rilegatura degna del contenuto.

Queste fasi operative richiedevano una precisa esperienza tecnica e il perfetto coordinamento delle diverse personalità all'opera, come accadeva all'interno degli scriptoria ecclesiastici e monastici (ad esempio quello attivo presso il monastero di San Pietro in Ciel d'Oro a Pavia) o nelle botteghe dei singoli maestri: specializzazioni professionali chiamate a rispondere alla regolare richiesta di testi scritti, documenti di vario genere, volumi a destinazione pubblica o privata, per esigenze amministrative, culturali, celebrative, educative nei centri di potere laico e religioso. Una categoria professionale caratteristica delle città universitarie come Pavia era quella dei bidelli o cartularii, che si occupavano della preparazione e vendita dei libri di testo per docenti e studenti.

Di alcuni di questi specialisti della manifattura libraria sono rimasti i nomi, o perché da loro lasciati quale memoria di sé, alla fine di un lungo lavoro di scrittura e miniatura, nei margini delle pagine, nei colophon dei libri, nelle incorniciature delle iniziali, talora accompagnati dall'autoritratto del miniatore al lavoro (è il caso, ad esempio, del monaco Pietro da Pavia), o perché citati nei documenti: contratti di commissione, atti notarili, lettere, libri di spese, pagamenti, atti giudiziari o amministrativi.

Anche la corte dei Visconti e degli Sforza si avvaleva di copisti e miniatori, esigendone la massima qualità tecnica e formale, in particolare per la realizzazione di esemplari unici per sfarzo, eleganza, preziosità, che potevano servire da sofisticato suggello di alleanze dinastiche e personali e il cui corredo decorativo rispecchia, a seconda delle epoche, lo stile allora dominante nel territorio lombardo e il gusto raffinato dei committenti.

Le straordinarie creazioni di grandi artisti, talora ancora privi di un nome, si susseguono per più di un secolo sulle pagine dei volumi dotati di ricchissimi corredi miniati: da Giovannino de' Grassi a Michelino da Besozzo (espressioni della più acuta e sofisticata fantasia del gotico internazionale intriso di ispirazioni oltralpine, tra fine Trecento e primissimo Quattrocento), dal Maestro delle Vitae Imperatorum (miniatore di punta della corte di Filippo Maria Visconti) a Belbello da Pavia (dalla febbrile e stravagante immaginazione ancora tardogotica), da Cristoforo e Ambrogio de' Predis a Giovan Pietro Birago, che si misurano, nell'ultimo quarto del secolo e oltre, con le accezioni molteplici dell'universo artistico rinascimentale, influenzato dal linguaggio antichizzante, dalle invenzioni ferraresi, dalla solidità strutturale foppesca e dal distillato naturalismo leonardesco.

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I libri come status symbol



Il patrimonio crescente di libri della biblioteca pavese rispondeva tanto a esigenze conoscitive, utili per la gestione di problemi concreti e per l'amministrazione del potere nei suoi vari ambiti (testi giuridici e scientifici, di geografia, arte militare, agronomia, medicina, retorica), quanto a interessi personali: dalla passione aristocratica per la caccia, la danza o il gioco degli scacchi a quella ancora tardogotica per i romanzi cavallereschi, o la progressiva inclinazione per i classici latini e greci.

Una libreria tardomedievale e rinascimentale deve idealmente contenere tutto lo scibile, secondo un'idea enciclopedica e universale del sapere, che non può prescindere dalla presenza di determinate opere irrinunciabili, autori e fonti della tradizione antica e medievale, ma anche dall'aggiornamento ai più moderni approcci umanistici, storici, filologici, letterari. Non è un caso se sulla biblioteca di Pavia si modellerà quella quattrocentesca (anch'essa totalmente dispersa) raccolta da Alessandro Sforza (fratello di Francesco) nel proprio palazzo di Pesaro, o se Federico da Montefeltro, all'atto di costituire la propria grandiosa libreria urbinate, richiederà tra gli inventari delle maggiori biblioteche coeve anche quello della collezione pavese.

La libreria del castello costituiva un patrimonio non solo immateriale, di cultura e civiltà, ma anche materiale: la preziosità (per antichità o pregio della manifattura) dei codici, la rarità dei testi – che potevano essere richiesti da studiosi e umanisti per essere consultati, presi in prestito, copiati, utilizzati anche per i corsi dello studium universitario pavese – ne facevano oggetti da custodire con estrema cura.

I libri venivano affidati, come ogni altro bene presente nella dimora ducale, al castellano, che doveva redigerne scrupolosamente un inventario all'atto della presa in consegna e curarne la manutenzione, la gestione, l'utilizzo, l'integrità. Il castellano di Pavia – scelto dai duchi nella propria cerchia di fedeli funzionari di un certo livello politico e culturale – doveva preoccuparsi di tenere ben custoditi i volumi e i documenti, metterli a disposizione dei membri della famiglia, ottenere dal duca l'autorizzazione per eventuali prestiti a professori e studiosi, sollecitare le restituzioni, controllare lo stato conservativo dei manoscritti e degli arredi della biblioteca.

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Localizzazione della biblioteca



Come si è detto, una raccolta libraria era il prestigioso biglietto da visita di una corte, di un signore, analogamente ad altre manifestazioni evidenti di potere politico, economico e culturale: dalle costruzioni o ristrutturazioni di edifici alle commissioni di opere d'arte, dalle raccolte di venerate reliquie (ricchissima quella pavese, valorizzata soprattutto da Galeazzo Maria Sforza, della quale facevano parte anche le Sante Spine, ora custodite nel Duomo di Pavia) alle collezioni di mirabilia naturali e artificiali. Nello stesso spazio della biblioteca del castello i libri convivevano con oggetti ritenuti rari e preziosi – come il "corno di unicorno" citato anche negli inventari – e con un vero prodigio della meccanica applicata ai calcoli astronomici e astrologici: il trecentesco orologio-astrario di Giovanni Dondi, medico alla corte viscontea e professore presso la neonata università pavese.

L'idea che la libreria visconteo-sforzesca fosse un tesoro o, se vogliamo, uno scrigno di tesori racchiuso in un più grande scrigno monumentale, il castello, emerge con chiarezza dalla tarda descrizione (a ormai settant'anni dalla sua dispersione) che ce ne ha lasciato Stefano Breventano, nelle pagine del suo itinerario tra bellezze e vestigia (superstiti o perdute) della storia pavese:

Nel mezzo dell'altro torrione il quale nello entrare resta a man sinistra è una camera la quale di quadrata forma capisce la grandezza d'esso torrione et ha le finestre come fin hora si veggono imbiancate di fuori, nella quale era una copiosa libraria et delle più belle che à que tempi si potessero vedere in Italia, i cui libri erano tutti di carta pecorina scritti a mano con bellissimi caratteri, et miniati, i quali trattavano di tutte le facoltà letterali sì di leggi come di Theologia, Filosofia, Astrologia, Medicina, Musica, Geometria, Retorica, Istorie et d'altre scientie, et erano di numero novecento e cinquanta et uno volume, come è notato in un Repertorio scritto in carta pecora, il quale è appresso di me, e detti libri erano coperti chi di velluto, chi di damasco o raso et chi di brocato d'oro o d'ariento con le lor chiavette et catenelle d'ariento con le quali stavano fermati alli panchi, i quali erano posti con quell'ordine et modo con che sono quelli delle Scuole pubbliche ma però fatti più belli come richiedeva il luogo et il grado di chi gli haveva fatti fare, ivi era ancora un corno di Liocorno lungo quasi un braccio il quale si mostrava per cosa rara et singolare. Il pavimento di questa stanza è fatto a quadretti di diversi colori come fussero vitriati.

La descrizione suggestiva del Breventano non solo ci parla (come tutto il suo percorso nel castello) del sogno di una dorata epoca drammaticamente svanita, ma offre indicazioni utili per individuare la collocazione della biblioteca nell'edificio e per immaginare come essa dovesse presentarsi agli occhi incuriositi dei visitatori ammessi.

La libraria era situata nella stanza che occupa ancora oggi interamente il primo piano della torre sudovest, una delle due superstiti delle quattro che sorgevano ai vertici dell'edificio. L'ambiente, ampio e luminoso per la presenza delle finestre, era allestito, secondo il modello delle biblioteche pubbliche e monastiche, con armadi e casse (contenenti anche i documenti dell'archivio ducale), scaffali e banchi lignei, sui quali i volumi erano disposti per la consultazione, agganciati tramite catenelle. La pavimentazione a mosaico (forse maiolicato) contribuiva certamente, insieme allo scintillio dei fermagli metallici delle rilegature più preziose, a riverberare la luce con effetti suggestivi.

Mappa del primo piano del Castello Visconteo di Pavia con la localizzazione della Biblioteca Visconteo Sforzesca, qui indicata come 'libreria'


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L'astrario di Giovanni Dondi



A pochi anni dal termine dei lavori di costruzione e abbellimento del castello di Pavia, la biblioteca dei Visconti ospitava un prezioso e complesso orologio astronomico, che per molto tempo richiamò l'attenzione degli eruditi di tutta Europa. La macchina era sicuramente in funzione attorno al 1381, quando il suo artefice – Giovanni Dondi – si trasferì da Padova a Pavia per porsi al servizio di Gian Galeazzo in qualità di medico di corte.

Conosciuto come Astrario, l'orologio era composto da quasi 300 pezzi e indicava i giorni e le feste del calendario, le eclissi e le posizioni dei sette pianeti nello zodiaco. Di dimensioni compatte, lo strumento era collocato al centro della biblioteca e protetto da una cassa lignea esterna, probabilmente di forme gotiche e decorata con motivi cosmografici. Accanto al congegno la biblioteca ospitava il suo "manuale" di costruzione ed uso, racchiuso in una custodia munita di otto chiavi, che portava le insegne ducali.

Creato per fornire un "modello meccanico" dell'Universo, che dimostrasse la compatibilità dei sistemi cosmologici concepiti da Aristotele e Tolomeo, l'Astrario ebbe anche un uso eminentemente pratico di tipo astrologico e fu sfruttato intensamente da governanti come Filippo Maria Visconti e Ludovico il Moro. Ancora nel 1463, il celebre astronomo tedesco Giovanni Regiomontano lodava il celebre orologio custodito dai duchi di Milano, ma per quanto i Visconti e poi gli Sforza si impegnassero a conservarlo e restaurarlo, nel corso del tempo l'Astrario si degradò e andò perduto.

Fortunatamente sono sopravvissuti alcuni manoscritti che ne descrivono la costruzione e hanno permesso di realizzare, a partire dal Novecento, una serie di ricostruzioni conservate in musei, luoghi pubblici e collezioni private sparse per il mondo ma non, sfortunatamente, nel luogo in cui l'originale era stato collocato.

Scarica il testo completo di Andrea Albini "L'universo ad orologeria di Giovanni Dondi" in formato pdf


L'Astrario di Giovanni Dondi nella ricostruzione di Guido Dresti realizzata tra il 2009 e il 2011



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Documentazione



Oltre al nostalgico ritratto letterario del Breventano, altre categorie di fonti storiche ci permettono di ricostruire con una certa precisione consistenza e vicende della libreria del castello: da un lato, tutti i documenti coevi inerenti a essa, dagli scambi epistolari tra duchi, castellani e altri funzionari ducali, agli inventari sopravvissuti, ai resoconti ammirati dei visitatori; dall'altro, i volumi stessi appartenuti alla biblioteca.

I numerosi dati interni presenti nei manoscritti – stemmi, iscrizioni, emblemi raschiati e sostituiti, iniziali, monogrammi, nomi, sigle corrispondenti alle collocazioni originarie su scaffali e banchi – opportunamente incrociati tra loro offrono preziose informazioni su epoca, autori, committenti, destinatari, passaggi di proprietà, copisti, miniatori dei volumi.

Dai diversi documenti legati alla vita e alla storia della biblioteca ricaviamo un'ulteriore notevole gamma di informazioni: qualità, quantità e distribuzione dei volumi; condizioni della loro accessibilità da parte di "utenti esterni" (non ultimi gli appartenenti allo studium pavese fondato nel 1361); stato degli arredi, necessitanti periodicamente opere di manutenzione e rinnovo – per esempio, in una lettera del 1456 del cancelliere ducale Facino da Fabriano (impegnato in un riordino delle carte d'archivio nel castello pavese) si segnala la scomodità dei banchi troppo stretti per i lettori e la necessità di un adeguamento – e l'aspetto materiale dei volumi.

Dalle annotazioni negli inventari desumiamo la preziosità di molte rilegature, in cuoio impresso e dorato e in velluto di diversi colori, con chiavette e borchie d'argento, la sontuosità dei corredi di decorazioni e illustrazioni miniate e la qualità della scrittura vergata sulle pagine pergamenacee – anche il Breventano ricorda libri "tutti di carta pecorina scritti a mano con bellissimi caratteri, et miniati". Numerose, soprattutto a fine secolo, sono, tuttavia, le indicazioni talora allarmate sullo stato conservativo dei libri, minacciato, come in ogni biblioteca medievale, dall'appetito dei ratti e dei tarli, dall'accanirsi dell'umidità e dall'usura.

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Gli inventari



Particolare attenzione va prestata agli inventari, assai preziosi per determinare lo stato della biblioteca e la variazione nel tempo, la sua cronistoria interna: formazione, acquisizioni, doni, incrementi, fino alla dispersione.

Sebbene non tutti i prestigiosi volumi legati ai Visconti e agli Sforza (e sicuramente passati per la biblioteca pavese) risultino citati negli elenchi, né, viceversa, tutti i titoli in essi presenti siano abbinabili a esemplari ancora conservati, incrociando i dati degli inventari con quelli degli altri materiali documentari è stato possibile ricostruire con una buona approssimazione la consistenza della libreria del castello e vagliarne il contenuto da più punti di vista. Una visione globale della biblioteca permette, infatti, di riscontrarvi l'emergere di certi filoni di interesse, il peso diversificato di autori e argomenti, leggervi in filigrana le inclinazioni di gusto personali e i progetti educativi e culturali dei duchi, evidenziandone la lungimirante attenzione per la conservazione e l'incremento del patrimonio librario e considerando l'apporto specifico della committenza signorile nell'ampio e articolato panorama artistico dell'epoca visconteo-sforzesca.

Gli inventari rintracciati sono cinque, tutti quattrocenteschi. Avendo condiviso anch'essi la sorte di dispersione dei volumi della biblioteca e dei materiali dell'archivio ducale, due si trovano attualmente a Parigi, uno a Milano e due ancora a Pavia:

  1. Consignatio del 1426 (Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, AD.XV.18.4): fatta redigere da Filippo Maria Visconti, attento bibliofilo, e compilata da tre funzionari ducali e dal castellano di Pavia, enumera 988 voci;

  2. inventario del 1459 (Parigi, Bibliothèque Nationale, lat. 11.400, ff. 1-19): approntato dal cancelliere ducale Facino da Fabriano per ordine di Francesco Sforza, ai fini della precisa conoscenza dello stato del castello – devastato durante i torbidi seguiti alla morte dell'ultimo Visconti – e dei beni in esso contenuti, per programmare interventi di manutenzione, restauro, rifacimento, conta 824 voci;

  3. breve lista datata 1469 (copiata nel medesimo manoscritto, ora a Parigi, che contiene l'inventario precedente): elenca 126 manoscritti appartenuti a Galeazzo Maria Sforza, innesto prezioso nella biblioteca, in un clima di rinnovato slancio della committenza ducale in termini di sfarzo cortese e di celebrazione dinastica e personale, che si manifesta parallelamente in chiave monumentale attraverso grandiosi programmi di decorazione pittorica e trasformazione interna degli ambienti del castello (come nel caso, ad esempio, della Sala Azzurra);

  4. inventario del 1488 (Archivio di Stato di Pavia, fondo notarile, notaio Giovanni Paolo Landolfi, cart. 853, ff. 821-871): compilato dal castellano Giovanni Attendolo Bolognini, è il "Repertorio" citato e consultato dal Breventano, che ne desume il numero di 951 codici, dato che oggettiva la consistenza della perduta "copiosa libraria";

  5. inventario del 1490 (nel medesimo fascicolo notarile del precedente, ff. 873-891): redatto dal nuovo castellano Giacomo Pusterla per conto di Ludovico il Moro (altro committente di esemplari di lusso) a poca distanza dal precedente, ai fini di un riordino complessivo del patrimonio librario – che verrà coordinato da Tristano Calco –, conta 947 volumi, dei quali ben 471 risultano bisognosi di restauro.

Gli ultimi due inventari, pressoché gemelli, registrano in modo dettagliato lo stato generale della biblioteca visconteo-sforzesca poco prima della sua dispersione; da essi, come da quello del 1426, si può forse desumere la distribuzione fisica dei libri nello spazio della sala loro destinata, in base a suddivisioni tematiche, per materie e discipline (retorica, diritto, teologia, medicina, grammatica, filosofia…).

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La dispersione



La descrizione pur vivida del Breventano lascia solo intuire il dramma della perdita della biblioteca, che precedette di quasi un trentennio la ferita più grave inferta alla mole del castello, più volte ricordata dallo storico pavese: il crollo e la definitiva demolizione nel 1527 dell'intero lato nord e delle due torri che lo chiudevano, in seguito ai colpi di artiglieria delle truppe francesi che assediavano Pavia.

Ancora una volta le vicende dell'antico edificio – possente scrigno di tesori e segno del potere signorile sulla città – sembrano intrecciarsi con quelle della sua celebre libreria, ma in questo caso più da un punto di vista ideale che reale. Da un lato, infatti, l'ambiente a essa dedicato non rimase coinvolto nel crollo strutturale e è pertanto ancora oggi agibile nel tessuto architettonico del palazzo; dall'altro, il grande patrimonio di sapere e di bellezza raccolto in quello spazio non è andato interamente perduto, restando vivo soltanto nelle memorie e testimonianze scritte dei contemporanei, ma è ancora per buona parte (più della metà) conservato, perciò tangibile, leggibile, ammirabile. La storia gloriosa della biblioteca ducale si era chiusa nel castello ben prima della distruzione cinquecentesca, allo scadere del secolo precedente, con la caduta rovinosa del duca e la fine della signoria sforzesca, ma si era riaperta altrove.

Un'imponente selezione di volumi (400 circa sui quasi mille iniziali) fu, infatti, requisita dal re di Francia Luigi XII durante la sua discesa in Italia, all'indomani della sconfitta degli eserciti sforzeschi e della cattura di Ludovico il Moro – celebre l'annotazione di Leonardo sulla catastrofe del 1499: "Il duca perse lo stato, la roba e la libertà, e nessuna opera si finì per lui". Trasportati nel castello di Blois e incamerati nelle collezioni reali (da dove andarono poi a costituire il primo prestigiosissimo nucleo della Bibliothèque Royale, poi Nationale, di Parigi), molti di quei volumi furono siglati con un nuovo ex libris: "de Pavye au roy Loys XIIe". Scrupolo inventariale che dà il senso della preziosità dei beni conquistati, ma che si è anche rivelato essenziale per determinare la provenienza dei manoscritti (più due libri incunaboli) dalla sontuosa biblioteca pavese.

I restanti volumi della libreria visconteo-sforzesca andarono dispersi in vario modo: taluni irrimediabilmente, nel caos seguito all'abbandono del castello pavese in seguito alla caduta del Moro, tra vicende di distruzione e saccheggio, altri (poco più di un centinaio), salvati dall'iniziativa di bibliofili ed estimatori, finirono per incanalarsi nelle intricate vie del collezionismo anche internazionale e per riemergere dall'oblio all'interno di biblioteche italiane, europee e d'oltreoceano.

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La ricostruzione virtuale



Le meticolose e approfondite analisi degli studiosi – dalle prime indagini ottocentesche di Girolamo D'Adda alla mirabile ricognizione effettuata da Élisabeth Pellegrin negli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento, fino ai contributi più recenti di Maria Grazia Albertini Ottolenghi e Anna Giulia Cavagna – hanno consentito di abbinare tra loro con certezza titoli che compaiono nei vari inventari della biblioteca visconteo-sforzesca e volumi tuttora esistenti, un tempo appartenutile. È stata, così, individuata più della metà (almeno 500) dei codici dispersi alla fine Quattrocento. Naturalmente il nucleo di gran lunga più consistente è quello conservato presso la Bibliothèque Nationale di Parigi, mentre altri, talora isolati, talora in gruppi più o meno numerosi, sono stati rintracciati in biblioteche di città italiane e straniere: da Milano (importanti i nuclei di manoscritti conservati presso la Biblioteca Trivulziana, l'Ambrosiana e la Braidense) a Napoli, da Modena a Chantilly, da Copenaghen a Oxford, da Monaco a Vienna, da San Pietroburgo a New York.

Oggi questo straordinario superstite patrimonio di testi, di storia e di bellezza può conoscere, grazie al progresso tecnologico degli ultimi decenni, una nuova importante e inaspettata occasione di valorizzazione e visibilità, oltre a quelle connesse alle collezioni in cui si trova materialmente suddiviso (ad esempio tramite campagne di digitalizzazione e condivisione online, come quella imponente della Bibliothèque Nationale di Parigi o la recente e selettiva promossa dalla Biblioteca Trivulziana per i codici di provenienza sforzesca). La dispersa raccolta libraria visconteo-sforzesca può, infatti, tornare a ricomporsi nella sua globalità, come corpo organico, occupando (pur in forma rinnovata) il luogo che le era stato destinato ab origine.

Anni di ricerche storiche e filologiche fruttuose, le opportunità offerte dalla riproducibilità dei testi su supporti diversi, la generosa collaborazione degli enti proprietari dei manoscritti e il lungimirante supporto delle istituzioni pubbliche italiane hanno portato all'attuarsi di un progetto ambizioso coordinato dai Musei Civici di Pavia: la ricostituzione multimediale dell'antica biblioteca dei Visconti e degli Sforza nel castello di Pavia. La prima fase è stata la raccolta delle versioni in microfilm della quasi totalità dei volumi identificati, in modo da renderli nuovamente consultabili e fruibili, almeno in immagine, in quel medesimo monumentale "scrigno" in cui erano originariamente custoditi.

Ciò rappresenta un'opportunità unica e straordinaria per innumerevoli approfondimenti specialistici e per iniziative di valorizzazione e divulgazione di questo eccezionale patrimonio culturale presso un pubblico vasto e curioso di visitatori e appassionati.

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Bibliografia



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Scarica il testo completo di Caterina Zaira Laskaris sulla Biblioteca Visconteo-Sforzesca pubblicato in questa pagina





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